La ricostruzione grafica dei Bronzi di Riace

A cura di Saverio Autellitano

Premessa

I Bronzi di Riace, rinvenuti nel 1972 ed oggi esposti al Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio, sono solo due tra i magnifici capolavori dell’arte greca antica giunti fino a noi in stato pressoché integro. Alla luce degli studi più recenti riteniamo di poter affermare con certezza che sulle due statue fossero presenti altre parti non giunte sino a noi, oltre ad una originaria raffinatezza cromatica andata quasi completamente perduta. 

 

Lo scopo di questo studio – e della conseguente ricostruzione – è dunque finalizzato a rendere giustizia al valore storico e socioculturale delle opere, all’altissimo livello tecnico del loro autore, e al fatto che siano state ritenute talmente preziose e importanti per averle spostate da Argos a Roma e Costantinopoli. Oggi sono qui a Reggio, sotto i nostri occhi attenti a studiarle e decifrarle.

 

 

Le ipotesi ricostruttive che proponiamo sono sostanzialmente il frutto di un lavoro di ricerca sul piano dell’estetica e del colore nell’arte antica, che non si ferma solo alle due statue di Riace ma come ulteriore conferma prosegue e trova riscontro anche in altre opere del mondo greco. Tale studio parte da scrupolose e metodiche osservazioni (la lettura dei segni appunto) ma le intuizioni che ne conseguono sono sempre confermate dalle corrispondenze storiche e iconografiche. 

 

La ricostruzione grafica tridimensionale è senz’altro finalizzata a testimoniare i riscontri ottenuti, ma il colore è probabilmente la parte più importante dello studio. Siamo infatti convinti che per il mondo greco l’aspetto cromatico fosse parte fondamentale del racconto e dunque costituisse una buona parte dell’opera stessa.

Un lavoro scientifico a tuttotondo, insomma, un risultato indubbiamente spettacolare ma mai fine a sé stesso, che intende restituire con maggior rigore possibile lo splendore originario delle opere così come riteniamo dovessero apparire. Strumento per raccontare al meglio la storia dei Fratricidi di Pitagora di Reggio in un mondo come il nostro, non più abituato a tale raffinatezza e sintesi ma totalmente immerso nel consumo del ready-made, delle storie già spiegate prima ancora di essere presentate.

Perché un lavoro di ricostruzione e che uso se ne può fare

Ci siamo spesso interrogati sul perché stessimo intraprendendo questo lavoro: una prima risposta è senz’altro la curiosità, il desiderio di svelare l’alone di mistero che da cinquant’anni circonda i due capolavori. In tanti hanno scritto e detto molto, senza quasi neanche aver osservato attentamente la superficie del bronzo, i suoi volumi nello spazio circostante, l’espressione dei due volti; in pochi hanno davvero provato a capire con cognizione chi o cosa le statue rappresentino: difatti, le poche informazioni che ad oggi vengono divulgate al mondo non vanno oltre l’estetica del documentario in prima serata. Paradossalmente, entrando al Museo Nazionale della Magna Grecia, se ne esce indubbiamente affascinati dalla bellezza dei Bronzi, ma anche ugualmente “ignoranti”, come prima di entrarvi.

 

Tutto ciò non ci soddisfa: avvertiamo il bisogno di ricostruire letteralmente l’identità di A e B, augurandoci di riportare allo splendore originario il lavoro di Pitagora di Reggio, uno tra i più grandi bronzisti del mondo antico. Possiamo affermare che tutto il lavoro svolto negli ultimi anni ha permesso di capire qualcosa di fondamentale: oggi non siamo più in grado di creare capolavori del genere; ecco perché è nostro dovere preservarne ogni dettaglio, ogni indizio che ci porti a comprendere come l’estetica dell’arte, il pathos del teatro e il messaggio politico della mitologia si fondessero armoniosamente in opere di questo tipo.

 

La ricostruzione intende dunque essere un ponte tra il lavoro conservativo della digitalizzazione e quello innovativo della ricerca, ma è anche e soprattutto un lavoro di divulgazione scientifica, auspicandoci di passare il testimone a chi, nel corso del cinquantesimo anno dal ritrovamento dei Bronzi di Riace, voglia venire a Reggio per continuare a studiare le due statue.

Realizzazione dei modelli 3D

Tra i processi che permettono di generare dati tridimensionali da oggetti reali, di norma il solo utilizzo di fotogrammetria non sarebbe da considerare di per sé uno strumento sufficientemente accurato, perlomeno non al pari di una scansione laser che potrebbe essere un’alternativa più precisa, a discapito però delle informazioni cromatiche necessarie. Per tale ragione, si è scelto di procedere con il metodo dei fotogrammi stereometrici, ma sviluppandone le specifiche. 

 

Dall’acquisizione di un modello grezzo ma comunque estremamente accurato nelle volumetrie, siamo passati alla rifinitura mediante scultura 3D, tutto su software open source (come, ad esempio, Blender), ottenendo forma e posizione degli oggetti statuari nello spazio. Grazie alla moltitudine di immagini acquisite, e con un paziente lavoro aggiuntivo in post-produzione sulle texture, abbiamo ottenuto una ricchezza di dettagli nettamente superiore, un risultato preciso e realistico del modello 3D.

 

Acquisiti dunque i modelli digitali, utili ad eseguire in modo virtuale prove altrimenti impossibili sulle delicatissime statue, siamo passati alla fase di modellazione degli elementi mancanti: elmi, scudi, lance, occhi, e parti non integre del corpo.

La ricostruzione delle parti mancanti

Decidere quale strada intraprendere per integrare degli elementi non più esistenti è un grande interrogativo. Per fortuna, la risposta non è complicata: escludendo ogni strada basata su ipotesi prive di riscontri, abbiamo compreso come sia sufficiente partire dalla lettura dei segni rimasti sulle statue, mentre il confronto iconografico conferma le ipotesi formulate. Possiamo quindi affermare che i Bronzi indossavano entrambi un elmo corinzio, una lancia, uno scudo oplitico e null’altro, con buona pace di chi ha ipotizzato potessero essere ornati da tutta una serie di elementi non compatibili con i segni.

 

Sappiamo, ad esempio, che la testa di A presenta uno “scalino” sulla nuca, dei segni triangolari sulla fascia intorno alla testa e dei segni di appoggio sulle due ciocche di capelli più sporgenti all’altezza più o meno delle sopracciglia, indice del fatto che doveva appoggiarvisi sopra un elmo, funzionale a coprire i capelli minuziosamente rifiniti, con l’obiettivo di far scorgere la chioma dalle fessure per gli occhi, cosa che solo un elmo corinzio della metà del V sec. a.C. permette di fare.

 

Analogamente, nel caso di B si identificano delle placche in rame applicate alla testa per mimare la struttura del cuoio di una kyné (la cuffia del comandante), visibili dalle fessure per gli occhi e nello spazio triangolare sopra la fronte, che ancora una volta solo un elmo corinzio del medesimo periodo lascia scorgere; dunque, non è un caso che la datazione dei Bronzi di Riace risalga proprio alla metà del V sec. a.C.

 

Abbiamo allora identificato un autentico esemplare da modellare in tre dimensioni, e tra i tanti un elmo corinzio del V sec. a.C., custodito presso il British Museum di Londra, è risultato essere nella sua semplicità progettuale il prototipo perfetto per la ricerca: il pezzo modellato in 3D non solo calza alla perfezione, ma permette di intravedere nei punti giusti gli elementi sopracitati sulla testa delle due statue.

 

Un simile metodo si può applicare per l’hòplon, lo scudo, di cui ci rimane il porpax che cinge l’avambraccio sinistro di entrambe le statue, un antilabé rinvenuto nella mano sinistra di A, e un gancio, presente sulla spalla sinistra di B. Uno scudo oplitico modellato in 3D, su quelli databili al V sec. a.C., combacia alla perfezione con tutti e tre i punti di contatto.

 

Per concludere l’equipaggiamento, i deboli ma inequivocabili “calchi” rimasti su avambraccio e braccio destro di entrambi i Bronzi lasciano intendere che vi si incastonassero delle lance oplitiche; inoltre, la modalità con cui le mani delle due statue afferrano l’arma (tra dito indice e medio per la statua A, tra le ultime tre dita e l’indice per la statua B) denota un diverso atteggiamento dei due personaggi: l’uno spavaldo e sicuro di sé, l’altro impaurito, scena perfettamente coerente con il momento di sfida tra Eteocle e Polinice.

 

La kyné è a nostro avviso uno degli elementi fondamentali nel racconto messo in scena dal gruppo statuario: la cuffia di cuoio indossata sotto l’elmo del re è infatti l’oggetto del contendere nella sfida tra i due fratelli.

I segni rimasti sulla testa di B attestano che la trattazione dei dettagli è minuziosa laddove non sia coperta da altro, per diventare al contrario piuttosto sommaria nei punti in cui la cuffia di rame martellato (che mima la resa del cuoio) ricopre parti del personaggio. Inoltre, fra i riccioli della barba si scorge chiaramente un solco, in cui trova posto il laccio che tiene ferma la cuffia sul capo.

 

L’artista, nel creare la statua B, ha risparmiato sui materiali, utilizzando solo alcuni inserti in rame nelle parti visibili, ma noi abbiamo scelto di modellare per intero la kyné, in modo tale da avere un’idea precisa su questo copricapo non più usato a partire dal IV sec. a.C., che aiuta a contestualizzare ulteriormente la scena in un periodo ben preciso.

 

Gli occhi delle due statue hanno occupato una parte importante dello studio: in virtù dei dati dell’ultimo restauro, si evince che A e B presentano una trattazione differente, probabilmente perché ciò rispecchia il riscontro letterario. 

 

Anche se degli occhi di A mancano purtroppo le parti interne (rimangono infatti solo i due bianchi dei bulbi oculari), sappiamo per certo che la statua dovesse avere un’espressione ostile: lo si intuisce dalla bocca digrignata, che mostra i denti. Polinice è il leone discendente di Eracle; dunque, non è difficile immaginarlo con gli occhi sgranati, color ambra, come quelli di un leone. Dal punto di vista tecnico, tale effetto può essere stato ottenuto con un’iride di pasta vitrea molto lucida, o forse con dell’ambra.

 

Di Eteocle, invece, abbiamo un occhio completamente integro, del quale, pur se rovinato dal tempo, conosciamo i materiali: l’iride è infatti composta da una pasta vitrea abbastanza opaca, atta a rappresentare il momento di tristezza e paura che il personaggio sta esprimendo. E proprio l’occhio che resta offre un ulteriore indizio: lo sguardo della statua B non è rivolto frontalmente, ma in basso, poiché Eteocle non riesce a guardare negli occhi il fratello che, invece, lo trafigge con lo sguardo carico di rabbia. Si tratta di un livello di mimesi teatrale senza precedenti nella storia dell’arte, che abbiamo cercato di tradurre nella nostra ricostruzione.

 

Due piccoli elementi di arbitrarietà, tutto sommato ininfluenti ai fini scientifici, ma secondo noi importanti per la comprensione delle sculture nella loro composizione originaria, sono le creste sopra gli elmi dei personaggi: abbiamo immaginato il capo di Eteocle sormontato da una sfinge, complemento alla kyné indossata sotto, poiché egli è, tra i figli di Edipo, colui che si presenta come il re di Tebe. Abbiamo invece immaginato la cresta dell’elmo di Polinice semplice, per bilanciare la ricchezza di dettagli di barba e capelli, e contemporaneamente per risultare armonico rispetto alla volumetria della statua opposta.

 

Ultimi, ma non meno importanti elementi da ricostruire, sono stati i due pezzi mancanti sui corpi: il dito spezzato di B è stato modellato continuando la linea naturale dell’articolazione rimasta permettendo di constatare che esso si appoggia perfettamente alla lancia, mentre il ricciolo mancante sull’orecchio sinistro di A è stato rimodellato coerentemente con gli altri già presenti.

Ricomporre il gruppo statuario

Ricostruire tutta l’opera nella sua integrità è stata sicuramente la sfida più importante perché si è trattato di lavorare senza i tre soggetti che purtroppo non sono giunti sino a noi: la madre, la sorella e l’indovino.

Ciò che abbiamo sono dunque le fonti letterarie, le descrizioni di chi ha visto il gruppo statuario e alcune “copie” della scena eseguite durante la permanenza a Roma.

 

Immaginando la scena descritta sappiamo che il primo “attore” a interpretare il dramma è sicuramente Tiresia, l’indovino che ha previsto tutto quanto sta per accadere. Abbiamo modellato la statua con le sembianze di un uomo anziano e dal volto irsuto, collocandola accanto a l’Eteocle rassegnato, con la mano destra appoggiata alla folta barba, segno della morte imminente come è  usuale riscontrare nelle fonti iconografiche.

 

Il secondo “interprete” è Antigone, la sorella dei due guerrieri, che abbiamo modellato con le sembianze di una giovane donna nell’atto di protendersi verso il fratello Polinice, nel disperato tentativo di dissuaderlo dal momento d’ira.

 

In ultimo il fulcro della scena, Eurigania, la madre dei due fratelli che “fuori di sé appresa la notizia del duello, andava scompigliata nei capelli e nel volto, nuda nel petto immemore della sua dignità di donna”. Pensiamo questa statua dovesse essere il vero capolavoro, la più bella tra le cinque, collocata al centro della scena per avere tutta l’importanza che merita. Dunque è proprio così che abbiamo pensato di rappresentarla, come una donna anziana dal volto disperato e dai seni nudi, inginocchiata e con le braccia aperte. Essa rappresenta infatti il dolore di una madre che sta per perdere entrambi i propri figli, impotente di fronte a un destino già scritto.

Infine, non potendo conoscere la trattazione dei materiali, dei colori e dei reali volumi, abbiamo scelto per il momento di non rifinire le statue, utilizzando come unico materiale la cera che l’autore avrà sicuramente usato per modellare le statue.

 

A questo punto ci siamo interrogati su come collocare la scena nello spazio. Abbiamo pensato ad un ambiente all’aperto vista la cura dell’artista nell’ancorare saldamente gli accessori alle statue, giustificabile con una esposizione agli agenti atmosferici. Inoltre abbiamo dedotto che la posizione delle opere dovesse essere vicina all’osservatore, così da poter apprezzare tutta la ricchezza di dettagli e di espressioni scolpite da Pitagora. La soluzione più plausibile consiste allora nel disporre le cinque statue su un’esedra, di uso comune in questi casi, in modo da poter letteralmente entrare dentro l’opera e poterne cogliere appieno ogni sfumatura, una struttura semicircolare generalmente destinata a luogo di ritrovo e vita pubblica per poter sottolineare il valore politico e morale del gruppo statuario dei Fratricidi.

 

Il risultato è ancora una volta spettacolare, e restituisce tutta la teatralità della scena oltre che un ritmo compositivo impeccabile tra due “archi” contrapposti, il semicerchio dell’esedra e quello dato dalle cinque diverse altezze.

Ricolorare i Bronzi di Riace

Comprendere che le statue antiche non fossero monocromatiche, come siamo abituati a pensare, può risultare difficile da accettare: ecco perché abbiamo ritenuto necessario che il colore fosse parte integrante della nostra ricostruzione.

 

Sono in molti, oggi, a considerare la monocromaticità dei grandi capolavori di Michelangelo, Canova, Cellini, Bernini o Donatello come una continuazione dell’arte antica, ma non è così; eppure, gli indizi ci sono tutti, sebbene, nell’immaginario collettivo, vi sia la tendenza a ignorarli, pensando le statue in marmo completamente bianche o quelle in bronzo di un colore scuro e indefinito tra il marrone e il verdastro. In realtà, sappiamo bene come molte tra le statue antiche in bronzo avessero inserti colorati; nel nostro caso, i Bronzi di Riace presentano parti colorate ben visibili come labbra, capezzoli e kyné di rame, denti d’argento e occhi fatti di calcite, pasta vitrea per le iridi e quarzo per la caruncula lacrimalis (le uniche due statue al mondo con tale dettaglio anatomico). Ciò porta a pensare che le due sculture non fossero in origine monocromatiche per come le conosciamo oggi.

L’analisi del metallo con cui sono fatte le due fusioni fornisce uno degli indizi principali: percentuali di rame e stagno sono anomale per gli standard che conosciamo. Difficilmente qualcuno userebbe tutto lo stagno presente nelle statue di Riace perché, oltre al costo esorbitante, una simile lega rende il bonzo più fragile e morbido. 

 

Le spiegazioni plausibili sono due, laddove l’una non esclude l’altra: 

  • Il bronzo più fluido consente una resa dei dettagli più minuziosa e accentuata; 
  • l’artista voleva ottenere un colore preciso, il biondo.

 

La percentuale di stagno indica che il colore è proprio questo, confermato dagli studi del prof. Koichi Hada dell’Università di Tokyo, il cui team ha realizzato copie di parti delle statue con le medesime percentuali di fusione, ottenendo appunto un colorito biondo.

 

Anche in questo caso, lo studio dei segni apre strade interessanti: difatti, osservando con attenzione la barba e i capelli nelle zone in cui la patina è stata eliminata, si vede tale colorazione.

Di contro, sappiamo che nelle parti meno esposte è stato trovato dello zolfo, così come su alcune zone del corpo permane un colorito marrone/rossastro simile, in qualche modo, alla pelle umana.

 

Il nostro studio, a questo punto, si avvale della collaborazione dell’amico Domenico Colella, esperto nella fusione dei metalli e costruttore di armi antiche, che ci ha illuminato: il bronzo così biondo può essere scurito con un processo di ossidazione selettiva (utilizzando ad esempio il fegato di zolfo), che permette di avere tonalità più scure, come ad esempio il colore della pelle umana.

 

Questa considerazione apre un ventaglio di possibilità cromatiche che conferma la nostra intuizione: abbiamo deciso, allora, di eseguire una campionatura colorimetrica su alcuni esemplari forniti dal Colella, per stabilire in modo scientifico quali tonalità potesse ottenere questo tipo di fusione; abbiamo ottenuto sperimentalmente una gamma delle reali e variegate tonalità del bronzo, sufficiente al nostro lavoro di ricostruzione. Ma la ricerca non si è fermata qui, perché ulteriori controlli alle percentuali di stagno, nei riccioli saldati singolarmente sul viso della statua A, hanno evidenziato che sono tutte estremamente variabili, elemento che consente di avere non soltanto il colore biondo, ma anche dei riflessi rosso rame, coerentemente con l’aspetto “leonino” di Polinice.

 

Se ne conclude dunque che Pitagora ha fuso le statue con il preciso intento di ottenere la tonalità più chiara possibile, il biondo dorato (o in alcuni casi il biondo ramato), per poi derivare colori via via più scuri laddove fossero serviti; non solo un maestro della scultura ma anche una persona in grado di padroneggiare aspetti della della pittura e della chimica, un artista che non smette mai di stupirci per le sue poliedriche conoscenze.

Visione generale della ricostruzione e conclusioni

Confrontando i risultati ottenuti, appare sorprendentemente chiaro come, nella loro integrità, i volumi delle statue si bilancino perfettamente: la folta chioma di Polinice e la kyné di Eteocle, per esempio, occupano lo stesso spazio, così come la posizione del corpo della statua A lascia “leggere” la scena in modo corretto; in tal modo, chi osserva i due fratelli che si fronteggiano, vedrà perfettamente la kyné di Eteocle e i denti di Polinice, i due elementi chiave del racconto. Altrettanto sorprendente è la resa cromatica, che rimane coerente con l’estetica dell’arte greca, e che ricorda in qualche modo la pittura vascolare come ulteriore riscontro iconografico.

Con questo lavoro di studio e ricostruzione, iniziamo a capire quanto fossero complesse e affascinanti le soluzioni tecniche adottate dai maestri scultori dell’antichità: un valido motivo per continuare a lavorare anche su altre statue, nell’intento di ritrovare il senso delle opere stesse, troppo spesso in balìa di trattazioni superficiali, ma che invece meritano approfondimento e studio.

 

Concludendo, siamo convinti che la perfezione dei Bronzi di Riace sia seconda soltanto alla genialità del loro autore, Pitagora di Reggio; per ironia della sorte, questa sua opera che racconta il fratricidio dei due fratelli Eteocle e Polinice come monito e condanna alle guerre civili, sono tornati alla luce proprio negli anni più bui di Reggio che li ospita, e forse non è un caso se dopo tutti questi anni iniziamo a capirne il senso: un invito a non opporsi l’un l’altro, ma a ricostruire un’identità comune, poiché, in fondo, l’anno dei Bronzi è anche l’anno di Reggio.

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