I Bronzi di Riace, capolavori dell’arte classica, realizzati ad Argo nel Peloponneso, nel V secolo a.C., e poi portati a Roma e lì restaurati nel I secolo d.C., sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio.
Lo studio accurato dei segni lasciati sulle statue in bronzo da Riace dagli attributi andati smarriti nel corso dei secoli, ha permesso di riconoscere la presenza di un elmo corinzio, di una lancia e di uno scudo oplitico nel Bronzo A, e dei medesimi elementi su quello B, su cui si può riconoscere anche una cuffia di pelle con paranuca a ricciolo e paraorecchie fissate con un sottogola.
Tale cuffia, chiamata korinthie kyne dagli antichi, era il segno del Re, del tiranno o dello stratego, presente in centinaia di opere d’arte, sia nella statuaria che nella numismatica e nella ceramica.
La ricostruzione degli attributi mancanti, unita agli altri dati scientifici acclarati, come l’analisi delle terre di fusione dei Bronzi, che hanno testimoniato la loro realizzazione ad Argo, nel Peloponneso, e le testimonianze letterarie loro pertinenti, hanno indirizzato la ricerca verso il mito dei Sette contro Tebe.
La conferma è venuta da precisi riscontri e confronti con sarcofagi attici, urne cinerarie e altri materiali in ceramica, tutti di II secolo d.C., epoca in cui il Bronzo B venne restaurato mediante la realizzazione del braccio destro e dell’avambraccio sinistro, frutto del calco di quelli originali, andati danneggiati.
Gli studi archeologici avevano già individuato nelle cinque figure ritratte in questa classe di materiali, l’eco potente del gruppo dei Fratricidi di Pitagora Reggino, il più grande e celebrato bronzista dell’intera antichità, che era stato creato ad Argo, dove i Sette a Tebe avevano culto eroico, e poi spostato a Roma, nel corso del I sec. a.C.
A Roma furono visti da alcuni autori e dai realizzatori delle opere d’arte che li riprodussero su vari materiali, e da lì partirono per il loro ultimo viaggio, verso la Nuova Roma, Costantinopoli, per volere dell’imperatore Costantino il Grande o di suo Figlio Costanzo II nel IV secolo d.C. Il viaggio, però, ebbe fine, inaspettatamente, vicino a un porto romano nel Comune che oggi si chiama Riace, dove sono state ritrovate le statue.
Per quanto riguarda l’interpretazione dei personaggi, nell’ambito del complesso e terribile ciclo tebano, una parte importante è assunta dalla storia di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e di Eurigania, secondo la variante del mito di Stesicoro di Metauro.
Dopo la fine del governo di Edipo, tiranno di Tebe, il potere doveva passare ai suoi due figli, che si accordarono nel seguente modo: avrebbero governato un anno a turno, così che mentre un fratello era al potere, l’altro sarebbe andato in esilio. Il primo ad esercitare il potere fu Eteocle, il più grande, che, allo scadere dell’anno, non volle consegnare il governo a Polinice.
Questi, adirato, si recò ad Argo, dove sposò la figlia del re della città. Il suocero organizzò una spedizione di sette condottieri per costringere Eteocle a riconsegnare il potere a Polinice. La campagna si risolse in modo disastroso: tutti i condottieri, tranne uno, rimasero sul campo.
I due fratelli, scesi in duello, si uccisero reciprocamente.
Nella generazione successiva, gli Epigoni, i figli dei Sette, guidati dal figlio di Polinice, Tersandro, riuscirono a conquistare la città di Tebe, vendicando i propri padri.
Il capitolo più recente della ricerca sui Bronzi di Riace riguarda il loro colore, giacché le fonti letterarie possono offrire un contributo decisivo anche sulla colorazione originaria dei Bronzi. In quest’ottica, abbiamo seguito una strada scientifica basata sull’incrocio delle fonti letterarie e dei dati archeometrici.
Il punto centrale riguarda l’intuizione relativa all’utilizzo della percentuale di stagno nella lega con il rame, per ottenere diversi colori del bronzo. Una alta percentuale di stagno rende il bronzo con un colore dorato, mentre altre percentuali inferiori portano a toni più rossastri. Ogni ciocca di capelli e barba aveva una percentuale differente di stagno, con effetti straordinari per la resa generale.
Per colorare la pelle, invece, come dimostrano gli studi sulle patine, Pitagora di Reggio utilizzò il “fegato di zolfo”, che modifica e scurisce il colore del bronzo.